di Maurizio Marini –
Ho preso visione con sconcerto dell’ennesimo “Codice”, stavolta è toccato al povero Raffaello (a proposito, qualcuno è a conoscenza che è stato pubblicato a fumetti un ” Codice Caravaggio”?) e la sua Visione di Ezechiele appartenente alle raccolte fiorentine di palazzo Pitti.
La prima delle mie considerazioni su quanto contenuto nello “scoop” (compresa la copertina) dell’”Espresso” concerne il materiale su cui l’opera è realizzata. Si tratta di tavola di legno di rovere, materiale che, per quanto di dimensioni ridotte (cm40,7 x 29,5), è decisamente più pregiato ( e, quindi, costoso) del pioppo (detto alla toscana “legno d’albero” pertanto ben più generico e di qualità usuale) su cui è stata realizzata la copia (è il caso di chiamarla col termine che le si addice) che ci viene proposta come originale. Al cui proposito la terminologia adottata donde una attribuzione inesatta dovrebbe essere un “falso” è del tutto errata e fraudolentemente fuorviante.
Il concetto di “falso” non è riferibile all’arte antica e peculiare dell’arte moderna e contemporanea.
L’opera d’arte del passato può essere una copia, una replica, un’attribuzione elargita generosamente o per carenza di informazioni, ma, per lo più, il “falso” è un’idea estranea a tale categoria.
Altro elemento estraneo alla cultura del passato è la cosiddetta firma siglata, quale comparirebbe sulla copia proposta: “SRV”: “Sanctius Raphael Urbinas”. C’è di che trasecolare! Quando mai un maestro dell’Umanesimo avrebbe premesso il cognome al nome come se si trattasse della risposta all’appello di una moderna visita di leva: “Santi Raffaello…presente!” La forma corretta (e un esegeta delle “humanae litterae” come Raffaello vi si attiene rigorosamente) è”Raphael Urbinas”, oppure ” Raphael Sanctius Urbinas” seguito, o meno, dal “Pinxit” o “Fecit”.
Circa l’aspetto tecnico quale, in radiografia, non avrebbe riscontrato “pentimenti” in corso d’opera nelle tavola Pitti, si tratta di un falso problema. Infatti i cosiddetti “pentimenti” si riscontrano nelle opere di quegli artisti del passato che tengono in poco conto i preliminari grafici. Vale a dire i disegni preparatori quali sono appannaggio della”Scuola tosco-romana” dei secoli XV-XVIII circa, ma sono mi minore supporto per la pittura veneta e, comunque, venetizzante. Emblematici i casi di Giorgione e Caravaggio, i quali all’occorrenza rielaboravano intere composizioni senza l’ausilio di disegni preparatori, da cui i molteplici “pentimenti” ravvisabili ai raggi X. A riprova dell’originalità della tecnica esecutiva del quadro Pitti soccorrono proprio le osservazioni donde sulla superficie si legge una ripresa dei margini dell’immagine tramite un “punteruolo” (correttamente definibile “bulino” o “calcatoio”). Ossia, secondo la tecnica tosco-romana di Raffaello il disegno preparatorio è stato ricalcato sulla mestica dell’imprimitura sulla quale si sarebbe dovuto stendere il colore della composizione da dipingere.
Un’altra categoria attinente agli studi dell’arte antica concerne la “bottega”, la”maniere de”, che, a mio avviso, possono essere applicate a entrambe le tavole oggetto del confronto. In tal senso ricordo che nel 1958 Frederick Hartt, nella sua monografia di Giulio Romano, ha riferito la tavola Pitti a Raffello ma, come di norma, nella bottega dell’Urbinate con l’intervento di Giulio che, peraltro, è il suo collaboratore abituale. Sicché il timbro chiaroscurato e drammatico nonché il tratto tecnico dell’affresco che caratterizzano la ” Visione di Ezechiele” Pitti, sono i connotati tecnico-stilistici di Raffello e di Giulio. Per contro il tono schiarito e diluito della copia proposta rinvia decisamente ad altri collaboratori del grande artista, di minore spessore espressivo quali Perin del Vaga e Luca Penni oppure Maturino da Firenze.
La forza di una atmosfera scossa dal tuono pervade l’inserto paesistico sovrastato da un Dio-Zeus nel quadro fiorentino, un acquazzone estivo già finito sfiora quello della copia ritrovada nel condato ferrarese…
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