Corriere della Sera – Roma 7 febbraio 2013, Paolo Conti
Nel giro di pochi mesi, Roma sta assistendo a un fenomeno a dir poco non ordinario. Tre esempi. Il primo, ormai noto, l’impegno del gruppo di Diego della Valle per il restauro completo del Colosseo con ben 25 milioni (impresa che si è scontrata, incredibilmente, con una quantità di ostacoli burocratico-normativi che avrebbero scoraggiato anche il più motivato tra i mecenati possibili).
Secondo esempio: la maison Fendi ha stanziato due milioni e mezzo di euro per il ripristino della Fontana di Trevi con un atto, come ha spiegato Silvia Venturini Fendi, di «mecenatismo puro» poichè non si chiede nulla in cambio. Terzo esempio: Paolo e Nicola Bulgari, presidente e vicepresidente del Gruppo Bulgari, hanno donato 1 milione e 200 mila euro all’Accademia nazionale di Santa Cecilia. Come ha spiegato una nota della casa «fino al 2015, i fondi contribuiranno a finanziare importanti progetti artistici grazie ai quali l’Accademia continuerà a distinguersi sulla scena musicale internazionale come fiore all’occhiello del panorama culturale italiano».
La migliore imprenditoria italiana, insomma, guarda alla cultura anche senza averne un tornaconto. Fendi non chiederà visibilità del marchio a Fontana di Trevi (che immensa pubblicità in tutto il mondo sarebbe stata), i Bulgari non impongono capitoli di spesa né sollecitano, a loro volta, altri tornaconti. In quanto al Colosseo, si è già detto tutto da tempo dopo interminabili polemiche.
La mano pubblica ha ampia materia sulla quale riflettere. Come ha ricordato pochi giorni fa su questo spazio il collega Paolo Fallai, la regione Lazio (e abbiamo detto tutto, ripensando agli scandali e agli sperperi di cui abbiamo dato ampi resoconti) nella proiezione di bilancio 2014 prevede per il settore spettacolo la clamorosa cifra di 600.000 euro. Inutile parlare di scandalo, sono espressioni superflue per una classe dirigente che si è mostrata, nello scorso anno, per quella che è.
Ma se di fronte a tanto sfascio i capitali privati continuano (per fortuna) a considerare il nostro patrimonio culturale come un bene collettivo da custodire anche col proprio denaro, significa che non tutto è perduto. Che la modestia della nostra classe politico-amministrativa, nel suo complesso, non è riuscita a incrinare un legame fatto di senso di appartenenza, di responsabilità d’impresa verso le generazioni future. C’è da augurarsi che i nuovi interlocutori che verranno eletti alla regione Lazio e in Campidoglio sappiano interpretare questi segnali e mettere a fuoco strumenti per abbattere ostacoli burocratici e incertezze com’è già avvenuto, per la verità, per la Fontana di Trevi.
Tra gli scopi dichiarati del Department for Culture, Media and Sport britannico è «creare le condizioni di una crescita economica rimuovendo gli ostacoli e realizzando indirizzi strategici per sostenere la creatività». Al Campidoglio e alla Pisana basterebbe mettere nelle condizioni i privati di assicurare fondi per una cultura che non ne ha più. Almeno questo, è un atto dovuto alla collettività.
Mano pubblica e soldi privati
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