Corriere della Sera, Massimo Nava - Le opere d’arte escluse dalla stretta di bilancio. Diventa più vantaggioso investire in un quadro che nell’industria. Meglio acquistare un Picasso che investire in un’impresa. Considerazione logica, dopo l’ultima «eccezione culturale» francese, questa volta in ambito fiscale. I possessori di opere d’arte sono stati risparmiati dalla pesante manovra in corso di approvazione all’assemblea: manovra che, fra imposte e tagli della spesa (ministero della cultura compreso), tocca tutti, colpisce soprattutto i ceti medio-alti e fa gridare all’esproprio proletario con l’ormai famosa aliquota del 75 per cento sui redditi oltre il milione. L’esclusione di una tassa sull’arte - motivata anche dal rischio di dispersione del patrimonio - ha effetto simbolico e conferma una certa gerarchia di priorità nella mentalità collettiva, oltre al potere d’interdizione di ambienti culturali e artistici. L’«eccezione culturale» aumenta il malumore della classe dirigente e imprenditoriale, la più tartassata. Non ci sono cifre certe, ma i piani di esilio fiscale, soprattutto in Belgio, si starebbero moltiplicando. Di sicuro, i consulenti lavorano a pieno ritmo. I conti sono presto fatti: chi si trova a dover pagare qualche milione di tasse in più preferisce le brume uggiose di Bruxelles, comunque a go minuti di treno da Parigi. Conti che evidenziano anche l’impasse dell’integrazione europea in termini di dumping fiscale. Il presidente Hollande ha voluto dare un’impronta etica, ma transitoria, a misure dettate dall’emergenza del debito pubblico e dagli impegni europei. Va detto che se i ricchi strillano, la Francia, nonostante la ventata giacobina, resta il Paese europeo con il più alto numero di milionari. E va ricordato che lo Stato è sempre pronto ad andare in soccorso delle imprese in difficoltà, talvolta con manovre disinvolte, come nel caso del salvataggio della banca interna del gruppo Peugeot. Al di là della depressione dei ricchi, molti economisti e commentatori, non solo di opposizione, mettono in dubbio l’efficacia di misure che, colpendo il capitale e l’impresa, rischiano di allontanare la crescita senza riuscire a ridurre il debito. Uno dei più autorevoli economisti di scuola liberale - Nicolas Baverez - sostiene che la Francia, con una politica confiscatoria, sta organizzando una sorta di esodo di massa di cervelli (in cerca di lavoro) e di risorse produttive, finendo per impoverirsi ulteriormente. «Non solo si fa precipitare il Paese nella recessione, ma si rimette in discussione il diritto e il concetto stesso di proprietà privata». Baverez rievoca l’editto di Nantes, quando i protestanti fuggirono dalla Francia andando a costruire fortune nel resto d’Europa. Forse esagera, ma di sicuro restano ancora sulla carta propositi di rilancio della competitività delle imprese attraverso riduzione del costo del lavoro e dei carichi fiscali. Nonostante tagli importanti della spesa, non è cominciata la marcia delle riforme strutturali che dovrebbero modificare in profondità il sistema troppo costoso di servizi sociali e amministrazioni pubbliche. Se ne parla da anni, forse da decenni. Ma la Francia - si sa - è un Paese conservatore, geloso custode delle sue «eccezioni». Anche quando governa la sinistra