L’Eco di Bergamo Elisabetta Calcaterra - Si accende il dibattito sulla paternità delle opere .La «scoperta» clamorosa fa parlare, ma serve cautela. Tra giugno e luglio i dipinti Sant’Agostino, Salvator Mundi e Crocifissione, che si stanno attribuendo rispettivamente al Caravaggio, a Leonardo e a Michelangelo, hanno riacceso sui media il dibattito tra esperti d’arte sul problema, sempre più attuale, dell’attribuzionismo. Esso coinvolge un problema più profondo: la crisi della «conoscenza dell’opera d’arte» («conoisseurship» in inglese), denunciata da numerosi storici dell’arte, fra cui l’americano James Beck. «Dobbiamo distinguere tra “attribuzionismo” e “conoscenza dell’opera d’arte” - spiega Piero Pierotti, presidente della sezione italiana dell’organizzazione Art Watch International, fondata da Beck nel 1992 a favore di una rispettosa conservazione delle opere d’arte -. Vengo dalla scuola pisana di Carlo Ludovico Ragghianti, di cui fui studente e poi assistente. Ragghianti insegnava a conoscere l’opera d’arte prescindendo dall’autore, anche se noto. Perché per lui contava il “fare” dell’autore, chiunque egli fosse, anche un falsario. Così s’imparava anche a riconoscere i falsi. Ragghianti, come Beck che seguiva lo stesso metodo di lavoro, non faceva attribuzionismo. C’era poi un’altra scuola che faceva capo a Bernard Berenson, aveva come suo massimo esponente Roberto Longhi e si occupava preferibilmente di riconoscere gli autori. La scuola di Ragghianti tendeva a preparare tecnici per le soprintendenze, l’altra si legava piuttosto ai galleristi e al mercato. Intendiamoci bene: sto parlando di mezzo secolo fa. Gli ultimi nostri laureati che trovarono impiego come ispettori delle soprintendenze sono andati in pensione o stanno per andarci, perché hanno oltrepassato i cinquant’anni e non sono stati sostituiti. In mezzo c’è almeno un trentennio di impegno sprecato e di esperienze bruciate. Questo quadro fa capire perché si allarga il numero degli attribuzionisti». Come arginare questa perdita a partire dall’ambito formativo? «La domanda è mia: un giovane storico dell’arte che studia in vista di un lavoro che tipo di formazione cercherà?». Negli ultimi anni si sta effettivamente incrementando la pratica dell’attribuzionismo, che emerge sui media nei casi più eclatanti? «Mi sembra ovvio. Quando si vuole annunciare una “scoperta” clamorosa devono entrare in gioco grossi nomi, altrimenti chi ne parla? Esemplare è il caso di Michelangelo: a forza di attribuirgli opere che non possono essere sue - incluso (a giudizio di Piero Pierotti, ndr) il Crocifisso acquistato molto incautamente dal ministero per i Beni culturali - è nato una sorta di Michelangelo parallelo che fa da riferimento per nuove attribuzioni, sempre più inattendibili, ma trattate dai media come se fossero credibili, appunto perché fanno notizia». Quali sono le principali problematiche poste dalla dubbia attribuzione - costosissima acquisizione di opere da parte di enti pubblici? Costituiscono casi emblematici, contestati da Beck e finiti sui media, la Madonna dei Garofani alla National Gallery di Londra, la Madonna con il Bambino del Metropolitan Museum ofArt di New York e il Crocifisso acquisito dallo Stato italiano, inclusi nel corpus dell’opera rispettivamente di Raffaello, di Duccio di Buoninsegna e di Michelangelo. «La questione più vistosa è lo spreco di denaro pubblico, in realtà la meno preoccupante. Il problema più grosso è lo svilimento della qualità. Se lo Stato italiano non interviene a difendere l’autenticità delle opere di questi autori, implicitamente accetta la svalutazione del nostro patrimonio culturale». Quali principali questioni Art Watch Italia individua e segnala in tema di restauro del patrimonio storico-artistico, non solo in casi noti e dibattuti come quelli della Cappella Sistina e del Cenacolo? Sarebbe opportuno conseguire un’aggiornata «Carta del restauro»? «Piuttosto che di “carta del restauro” preferiamo parlare di “carta dei diritti dell’opera d’arte”. Infatti ci stiamo lavorando. Non siamo i soli a ritenere che, quando interviene la necessità di un restauro, la battaglia sia già persa: sicuramente vi sarà una perdita di originalità. Senza nasconderci le difficoltà, su un patrimonio enorme e disperso come il nostro, vorremmo che si potesse parlare di “ordinaria manutenzione”: l’obiettivo deve essere quello. Per fortuna si è attenuato il fenomeno dei restauri forzati, indotti da forti sponsorizzazioni e portati avanti anche senza necessità. In questo forse anche Beck e Art Watch Italia hanno qualche merito. La frequentazione troppo intensa dei luoghi di esposizione sottopone a usura le opere d’arte, finché il restauro diventa indispensabile. Da almeno dieci anni ArtWatch Italia propone di introdurre nei musei forme di conoscenza organizzate in modo diverso. Ma per ora nessuno ci ascolta: la regola sembra essere quella non di far “conoscere” le opere di cultura, ma di staccare biglietti».