La Sicilia, Mario Barresi - Scicli.Il sindaco è nel suo gabinetto. Che poi è uno sgabuzzino di tre metri per due. “Sfrattato” dalla sua meravigliosa stanza tardo-barocca a causa della continua invasione dei turisti, bramosi di foto-ricordo nell’ufficio dove il Montalbano televisivo riceve i cazziatoni del questore Luca Bonetti Alderighi. Tanto più che con quell’identità - si chiama Giovanni Venticinque - il primo cittadino di questa città incantevole sembra proprio essere nato per vivere nelle pagine di Andrea Camilleri. «Subito dopo l’elezione - si sfoga Venticinque - ho provato a far convivere il ruolo di sindaco con la stanza assegnata, ma dopo poche settimane ho dovuto gettare la spugna. Amministrare in mezzo ai flash dei turisti è impossibile». E il sindaco “prigioniero” dei turisti in municipio è un po’ il simbolo grottesco della città dei paradossi. Scicli. Raggiante di Barocco e immersa in uno scrigno di tesori, vive una giovinezza catodica grazie ai cosiddetti “luoghi di Montalbano”. Una luce talmente accecante da creare un oscuro cono d’ombra. Che magari non riesce a coprire il Barocco “griffato” Unesco. Ma che distoglie l’occhio dei turisti - e soprattutto delle istituzioni - da una lunga lista di siti tanto unici quanto abbandonati. Il primo pensiero è per la fornace Penna. Un capolavoro in riva al mare di contrada Pisciotto a Sampieri, frazione sciclitana. Un sito che prima di essere - tanto per restare in argomento - la mannara del Montalbano di mamma Rai oggi è soprattutto una delle più rare testimonianze di archeologia industriale rimaste in Sicilia. «Una basilica laica in riva al mare», la definì Vittorio Sgarbi. Già, perché questa maestosa ex fabbrica di laterizi (risalente ai primi del ‘900 e “figlia” del talento dell’ingegnere Ignazio Emmolo) che dava lavoro a cento bambini-operai, nonostante il disastroso incendio doloso del 24 gennaio 1924 e i seguenti decenni di abbandono, resta un sontuoso simbolo dell’ingegno umano. Tanto meravigliosa che qualcuno - ovvero i legittimi eredi del proprietario, il barone Guglielmo Penna di Portosalvo - vorrebbero trasformarla in un resort a cinque stelle. Ognuno a casa propria fa quello che gli pare e il progetto - pure osservato con favore da qualcuno dei predecessori dell’attuale sovrintendente - avrebbe recuperato un monumento oggi circondato da erbacce miste a un tappeto di profilattici e fazzolettini di carta residui delle notti calde con vista su Vigàta. «Ma la fornace Penna - ricorda il sindaco - ha un numero di vincoli pari al Colosseo». Ovvero: paesaggistico, monumentale, di distanza entro i 150 metri dal mare e quello di “luogo del cinema” introdotto dall’allora assessore regionale Fabio Granata. «Ma nonostante ciò - ricorda il sindaco - non è potuta partire la fase di acquisizione e di relativa valorizzazione pubblica di questo monumento-simbolo di Scicli. Le ipotesi per cui ci battiamo sono la ruderizzazione e il successivo esproprio della fornace». Infatti la burocrazia è talmente autolesionista da aver fornito 19 anni di “vantaggio” alla miriade di eredi del barone. Tanto, infatti, c’è voluto perché i nobiluomini e le nobildonne ricevessero la notifica del vincolo monumentale sulla fornace. Con un prevedibile ricorso al Tar, tutt’ora pendente. Intanto la fornace resta lì. Nel limbo fra il privato e il pubblico. In bilico fra un presente d’incuria e un futuro da resort. Forse è l’effetto della maledizione misteriosa che l’avvolse assieme alle fiamme. «A mmia m’hanno scippatu un pilu di capiddu», disse il barone Penna all’alba del rogo. Ma l’ingegnere Emmolo pianse lacrime di rabbia: «Non una sola ora, non una sola lira per il Pisciotto». E così è stato. Negli ultimi 87 anni.