Sardegna. Un altro pianeta. L’isola che non sa dimenticare…

 di Rossana Calbi
Alla fine dello scorso gennaio è la galleria La nuova Pesa centro dell’arte contemporanea (via del Corso, 130- Roma) ha ospitato, per soli due giorni, una mostra fotografica dedicata alla terra di Sardegna. Tre fotografi: Franco Fontana, Paolo Bianchi e Sveva Taverna ci illustrano un luogo quasi fermo, immobile e con dei colori forti e rigorosi come i suoi abitanti.
Una vera e propria staffetta per portare la Sardegna nel resto d’Italia. Prima di Roma, Ravenna, e dopo Roma la mostra ha trovato ospitalità, presso la Fondazione Benetton di Treviso, ed ora e fino al primo marzo, la Sardegna sarà nel cuore di Milano, in via San Barnaba 8, nello spazio i Chiostri dell’Umanitaria.
Gli occhi dei tre artisti guardano la Sardegna da angolazioni diverse e da prospettive che si spiegano vicendevolmente.
Nel complesso, si presentano gli aspetti di un mondo lontano e, secondo la nostra visuale, statico ed ancorato  a specifiche tradizioni. Dal “continente” la Sardegna ha del nascosto e del meraviglioso, la sua condizione di estraniamento dal resto, la riveste di un velo di immobilità. 
Sanno d’antico gli spazi raccontati da Franco Fontana, che con lavori di ritocco sui paesaggi incombenti crea contrasti tra colori e idealizza dei luoghi in cui la natura è prepotente sull’uomo. La Sardegna sa anche essere una terra ingrata, che non vuole spiegarsi e che a stento perdona chi la vuole raccontare e svelarne i segreti. Ricordando il film di cui Gavino Ledda, lo scrittore del celeberrimo Padre padrone, curò la regia, Ybris del 1984, capiamo quanto un sardo non possa essere perdonato per il suo essere doppio: un pastore e uno studioso e per aver rivelato quella tradizione antica e forte che fa parte del mondo contadino.  Questa gelosia dei sentimenti e dei propri usi è dichiarata in queste foto, soprattutto in quelle dei due giovani fotografi, che si sono cimentati a raccontare una vita simbolica e rappresentativa.
La dualità e il contrasto, tra il voler raccontare e la gelosia di ciò che è proprio, sono le chiavi di lettura nelle immagini di Paolo Bianchi, nato a Nuoro, classe ’75. Nelle sue foto, i costumi e le donne si innalzano per spiegare un’essenza, si stagliano contrastando la natura come a caratterizzarla, quasi a rappresentarla, come elementi della stessa. Quelle donne dai volti pallidi sembrano far parte di una fiaba, come mitologiche presenze, la loro pelle sottile e diafana non le spiega come creature viventi, sono strette nei costumi elaborati e ricchi, come signore dello spazio. Potrebbero essere loro le creature irreali che, oggi, vivono nelle case delle fate, le antiche tombe del neolitico, ancora visibili nel paesaggio. Così le maschere apotropaiche sono oniriche visioni di paure che si stigmatizzano nel congiungimento con la natura, nel patto che si stringe con essa. Il lavoro concettuale di questo fotografo ha delle solide basi, nonostante i voli alti e metaforici.
In contrasto, la semplicità del racconto di Sveva Taverna, la più giovane tra i tre fotografi. Quello che coinvolge la Taverna è la vita! La sua è una tensione sincera e dichiarata, rispetto ai sorrisi, alle espressioni quotidiane, ai gesti. Non spiega nulla, perché coglie la poesia di un profilo di donna, di un passo di danza, di una festa cittadina. La ricchezza delle espressioni che contrastano con la semplicità dei mezzi, la fotografa ha solo scatti di pellicola, rigorosamente, in bianco e nero. Sveva Taverna è usuale, nei suoi racconti esistenziali, ad evitare le forzature e a farsi coinvolgere dalla bellezza altrui fermando il lirismo.
Tre modi di raccontare una storia: la Sardegna. Ravenna, Roma, Treviso e Milano: quattro tappe per farla conoscere attraverso la fotografia.


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