Il Tempo, di LIDIA LOMBARDI –
Maurizio Marini era così: scherzava sul suo talento di grande conoscitore dell’artista che più fa notizia, anche per improbabili ritrovamenti. E lo faceva concedendosi la «calata» romanesca, perfetta nel suo personaggio di studioso severo con se stesso e con gli altri, ma mai supponente, piuttosto sornione, come poi sono i romani veraci. Perché Marini era, oltre che il massimo indagatore del Merisi, il narratore della Roma del Cinque e del Seicento, che sviscerava nei palazzi, nelle chiese, nei tesori nascosti.
E la sua casa, dietro Piazza Navona, era una galleria di dipinti ma anche il posto dove si andava a brindare alla bellezza di questa città, con un Marini insieme anfitrione e professore di storia dell’arte. Caravaggio aveva cominciato a studiarlo negli anni Sessanta, durante la formazione universitaria. Lunghi i suoi confronti con i numi di quegli anni: Federico Zeri, Maurizio Fagiolo, poi, negli anni recenti, Paolo Portoghesi e Claudio Strinati. E aveva girovagato in Europa e in America, per vedere con i propri occhi tutto quanto riportasse al pittore morto a Porto Ercole quattro secoli fa: quadri autografi, attribuiti, «in odore di», copie.
E poi lettere, documenti, inventari, cataloghi. Insieme, i confronti con straordinari restauratori, come quel Pico Cellini che aveva messo mano alle tele più disastrate del «pittore maledetto». Ma non solo Caravaggio. Anche Velazquez, El Greco, Vasari (del quale ha presentato le «Vite» per la Newton Compton), Mattia Preti. E gli illustratori più suggestivi della Città Eterna, come Piranesi e Pinelli. Di soddisfazioni se n’è levate parecchie, Marini. Per certi dipinti seppelliti in qualche museo – o chiesa, o casa blasonata – lasciati a languire sotto la loro patina di nerofumo, considerati per decenni di poco conto e poi riconosciuti, dopo la sua battaglia, autentici Caravaggio.
L’ultima scoperta a Londra, qualche anno fa. Addirittura ad Hamtpon Court, dove è riunita parte delle Royal Collections. Marini aveva individuato qui, da anni, una «Andata ad Emmaus», o «Vocazione dei Santi Pietro ed Andrea» ritenuta copia del Caravaggio. Ma per lui no, era un dipinto autentico, che andava restaurato. Dai curatori delle Royal Collections, aveva ricevuto un diniego. Ma a dargli manforte, in vista di una mostra, sir Denis Mahon, il vegliardo e sapiente critico, quello che Marini chiamava sorridendo «Dionigi».
Lo aiuta ad avere il dipinto in prestito, ottiene un saggio di pulitura ad Hampton Court che dimostra con certezza la mano del Merisi. «Dionigi e io, gli scorpionacci – diceva Marini riferendosi al comune segno zodiacale – abbiamo avuto il privilegio di esporre il capolarovo riscavato dalla tenebre (in ogni senso!) a Roma, dove fu dipinto intorno al 1600». Altre dispute Marini ha vinto. Per il «San Francesco» di Carpineto Romano, o per il Caravaggio di Palestrina, un San Gennaro, come ha sempre sostenuto, e non un Sant’Agapito, secondo la convinzione di Maurizio Calvesi. Ha avuto ragione anche sul Crocifisso ligneo di Michelangelo, esposto alla Camera dei Deputati. «Non è del Buonarroti», mi disse, al contrario di molti altri storici di grandissimo peso. Che poi sono stati d’accordo con lui.
Caravaggio non ha più Maurizio Marini. «Un giorno mi cerca una signora e dice “Guardi, io c’ho due Caravaggi».
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