La fortuna di Caravaggio e il suo critico

 Il Riformista, C-L. –
Gli storici dell’arte non te li aspetti così, appassionati, turbolenti e pronti allo scontro. Maurizio Marini, morto a Roma a poco più di sessant’anni di un male incurabile invece era fatto così. Professore emerito, specializzato nell’arte barocca e rinascimentale, il secolo d’oro della pittura europea, Marini era uno dei maggiori esperti di Caravaggio. E il successo relativamente recente e travolgente del maestro lombardo Impiantato prima a Roma e poi in Sicilia e a Napoli, a Maurizio Marini doveva molto.
La Roma barocca per lui non aveva segreti e Caravaggio, il più eccentrico e trasgressivo protagonista della pittura di quegli anni e per molti l’iniziatore della pittura moderna, era diventato una passione e insieme una mania. Ribelle, imbrevedibile, documentato fino all’ossessione, dai classici alle carte resuscitate dalle sacrestie dei paesini, quando le attribuzioni dividevano gli esperti, Marini era pronto a svelare i dubbi con attribuzioni ricche di documentazioni e dati scientifici ma forti soprattutto del suo occhio clinico. Contrasti chiaroscurali, stilemi, tecniche pittoriche, perfmo le comici, originali o posteriori erano indizi per svelare il giallo di un’attribuzione o un autografia.
Celebre la sua perizia al quadro di Cara-vaggio rubato nel 1969 e finito nelle mani della mafia e mai più ricomparso: fu trasportato sul posto ad occhi bendati e lo riconobbe. Fu l’ultimo storico dell’arte a vederlo. Velazquez, El Greco, Vasari (del quale ha presentato le Vite perla Newton Compton), Mattia Preti. E gli illustratori più suggestivi della Città Eterna, come Piranesi e Pinelli. Chiunque avesse impugnato il pennello nei due secoli che hanno regalato all’italia il primato artistico che detiene, gli era noto come un amico, fra tutti sapeva imbastire paralleli e antinomie. Assomigliava a Orson Welles e la sua casa, dove si incontravano studiosi e attori, giornalisti e scrittori, era una pinacoteca foderata di quadri frutto di fortunate intuizioni odi ostinati pedinamenti.
Colonna sonora delle serate indifferentemente Bach, i Carmina burana o la musica travolgente degli Abba. Con la stessa irriverenza con cui mischiava la musica, era capace di spiazzare i convitati chiamati al dibattito: «Il concetto di “falso” non è riferibile all’arte antica» raccontava agli amici Marini, «è peculiare dell’arte moderna e contemporanea. L’opera d’arte del passato può essere una copia, una replica, un’attribuzione elargita generosamente o per carenza di informazioni, ma, per lo più, il “falso” è un’idea estranea a tale categoria».
Collaboratore di Repubblica, deI Tempo e di Rai 3, consulente artistico di Buckingham Palai, autore di monografie e saggi, alla domanda se Caravaggio fosse un bohèmien rispondeva sarcastico e come sempre spiazzante: «Non sono d’accordo. All’epoca gli studi su Caravaggio risentivano ancora di una conoscenza limitata e dell’avversione per questo pittore, particolarmente forte negli ambiti ecclesiastici. E poi Caravaggio era un pittore ben pagato e apprezzato, niente a che vedere con i bohème». Caravaggio sfugge a banalità e agli attributi facili, anche grazie al suo più appassionato studioso. Capace di lavorare per anni sulle carte, di esaminare per giorni le analisi spettroscopiche dei quadri, per affidare il giudizio definitivo poi al rapporto esclusivo e unico tra studioso e opera. «L’ultimo documento è il quadro – era solito dire Maurizio Marini – e se il quadro non regge l’attribuzione non c’è niente da fare». C.L


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