Si riparla di abbassare la fiscalità sull’arte. E presto sarà un coro, inascoltato, a meno che…

 di (P.M.P.) –
Ciclicamente, come avviene nel paese delle buone idee pensate a mai realizzate, torna sui media il vecchio discorso sull’abbassamento dell’IVA sull’arte di una fiscalità di vantaggio per i beni culturali.
Stavolta a dare il via all’apertura del libro dei sogni del popolo dell’arte è stato Andrea Carandini, presidente del Consiglio Superiore del Mibac al Salone del Libro di Torino. E subito gli hanno fatto eco una serie di grandi personaggi del mondo dell’arte, in primis Antonio Paolucci, seguito da Claudio Strinati,  e c’è da scommettere che molti altri seguiranno nei prossimi giorni, se non altro per confermare quello che si è detto e scritto da anni.
E si aggiungeranno storici e critici, galleristi e artisti, antiquari e restauratori, scrittori e musicisti.
La cosa avveniva già quando non si parlava quotidianamente di antipolitica ma casomai queste bizzarre richieste venivano etichettate solo come utopia, rispondendo allora il mondo politico frasettine tipo “Ora non abbiamo soldi, ma allo studio abbiamo numerose iniziative che presto…anzi ne discuteremo in Commissione…”
Sono passati anni, decenni anzi, visto che l’ultima buona legge di vantaggio fiscale per l’arte risale al 1982, la Scotti/Guttuso, ottima e tuttora in vigore ma sistematicamente ostacolata dal ministero delle Finanze senza vibrate ed efficaci rimostranze dei ministri che si sono succeduti al Mibac. O almeno non ne abbiamo avuto notizia.
Ora di nuovo molti esponenti del popolo dell’arte tornano alla carica. Benissimo.
Ha dichiarato ieri ad AdnKronons Antonio Paolucci : ‘Sottoscrivo pienamente quanto ha detto Carandini. Per regolamentare la fiscalità di vantaggio, se lo si volesse, basterebbe una circolare normativa senza dovere necessariamente ricorrere alla forza di una legge”, ha aggiunto anzi  il direttore dei Musei Vaticani, ex ministro dei Beni culturali ed ex soprintendente del Polo museale di Firenze, che ”ci sono molte linee sulle quali agisce la fiscalità. Bisognerebbe, ad esempio, abbattere l’iva sulla circolazione dei beni artistici.
Tassare l’acquisto di un’opera d’arte – ha sottolineato Paolucci – come se fosse caviale o champagne, secondo me non è giusto perché l’arte non è un bene voluttuario. C’è anche la questione che riguarda i possessori di dimore storiche, che appartengono al grande patrimonio dei beni culturali italiani. Servirebbe il contributo dello Stato per la loro manutenzione, e non gravare i proprietari con l’Imu, anche se ridotta al 50%. A parere mio questo non è giusto”. Secondo Paolucci, ”dobbiamo passare da una cultura che considera un privilegiato il possessore di beni artistici, a quella che lo vede un custode di fatto di opere o immobili patrimonialmente suoi ma che appartengono alla cultura della collettività”.
E Claudio Strinati, storico dell’arte, ex sovrintendente del Polo museale romano e dirigente generale del Mibac: ”Sulla fiscalità di vantaggio Carandini ha totalmente ragione: è una chiave di volta fondamentale’.Penso che Carandini abbia indicato uno dei temi cruciali  e in questa direzione bisogna lavorare”. L’ex sovrintendente di Roma considera dirimente ‘’sia l’Iva agevolata che la defiscalizzazione per chi investe in beni culturali”. Quanto al modello francese, proposto dal presidente del Consiglio Superiore dei Beni culturali, che prevede la detraibilità del 60% del capitale investito in cultura, secondo Strinati ”è un buon modello e potrebbe essere adeguabile alla nostra realta”’.
Stessa linea dell’ex ministro dei Beni culturali Giancarlo Galan. ”Sottoscrivo ‘in toto’ le parole di Carandini, quella della fiscalità di vantaggio è stata una mia battaglia ed era quasi sul punto di essere vinta, perché le resistenze di Tremonti erano state fiaccate”, ha detto all’Adnkronos Galan. ”Quando ci hanno mandati a casa – ricorda Galan – avevamo preparato un decreto fiscale. Decreto che successivamente venne trasformato in disegno di legge. In quel decreto c’era tutta una parte dedicata alla fiscalità di vantaggio, che poi venne tolta. Ma era già fatta. Basterebbe riprendere quel testo, ispirato alla legislazione della Francia, Paese simile al nostro visto che ha un’alta concentrazione di beni culturali. Ecco – ha detto ancora – io suggerisco a Ornaghi, che ha fatto molte cose buone, di recuperare quel testo e metterlo in atto”.
E’ chiaro che sarebbero buone idee, anzi ottime e giuste, che oltretutto ben poco toglierebbero al gettito dello stato. Se difatti l’editoria ha l’Iva al 4%, proprio perché ha la funzione sociale di diffusione del pensiero, non si capisce proprio perché anche pittura, scultura, antiche moderne o contemporanee che siano, e il restauro sia dei beni immobili che mobili, insomma tutta l’arte, non debbano avere la stessa Iva, e fiscalità favorevoli, soprattutto quando il livello che invece abbiamo ci mette in posizione di svantaggio rispetto alla competizione con altri paesi europei nello stesso settore, come accade da sempre.
Altrettanto chiaro è che lo stato doveva e dovrebbe casomai impegnarsi a risparmiare denaro altrove: leggi intanto gli sprechi reiterati e continuati delle pubbliche amministrazioni e prosegui con la constatazione che finché si tratta di prendere dai cittadini lo fa con mano molto pesante, ma se invece si tratta di dare, si arrocca su “Ora non ci sono soldi, ma aspettate e vedremo, faremo, studieremo…”
Ma la questione di un uso ragionevole o dissennato del denaro pubblico è appunto anche una questione culturale, e difatti nessuno del popolo dell’arte, soprattutto mi riferisco ai ministri politici che si sono succeduti al Mibac è mai riuscito a fare capire a nessun ministro delle finanze o dell’economia che il denaro è volatile, si spreca, si svaluta, si brucia, mentre l’arte e cultura restano, e che non possono e non devono essere feudo o clientela di nessun partito o di nessuna ideologia e nemmeno si possono pretestuosamente usare per fare clientele o allo scopo principale di produrre reddito turistico. Seppure  ci hanno provato sono stati zittiti con una occhiataccia. Evidentemente sono mondi non comunicanti.
Il difetto temo sia  quello che nessun potentato economico, nessuna lobby, nessun partito guadagnerebbero da una liberazione della cultura, non dico in toto, ma almeno da alcuni lacci fiscali, che non sarebbe tutto ma almeno un inizio, visto che difatti si è anche chiesto ai partiti di rinunciare alla vergogna dei rimborsi elettorali, magari per destinare quelle ragguardevolissime somme per esempio ai beni culturali e alla ricerca.
Sembrano d’accordo solo a dimezzarli – a chiacchiere –  salvo qualche reazione piccata per esempio di Livia Turco (nei confronti di Staderini, segretario dei Radicali Italiani), se si mette in dubbio l’utilità e la legittimità del rimborso per legge e non per semplice contribuzione volontaria dei cittadini con un tetto piuttosto basso. Figurati poi cosa accadrebbe se ai partiti si chiedesse l’elenco non solo degli incassi pregressi ma anche delle loro proprietà immobiliari e partecipazioni in aziende di ogni tipo, incluse fra l’altro quelle culturali. E’ un capitolo che non si deve aprire.
Ma i venti che corrono ultimamente sono di profonda insofferenza, di prodotti della politica corrente sulla strada del tramonto, o addirittura ormai scaduti e quindi, magari solo per recuperare un po’ di credito, qualche partito tenterà di farsi antipolitica di se stesso e concederà qualcosina, tanto per metterci il cappello, promettendo che ” …non ora, ma a tempo debito si farà…”


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