FLORENS E LE RAGIONI DI UN NO (E LO SCATTO CHE SERVE)

 Corriere Fiorentino, 7-11-2012, Tomaso Montanari
«Gli Uffizi sono una macchina da soldi, se li facciamo gestire nel modo giusto». Inaugurandolo con queste incredibili parole, Matteo Renzi ha colto l’essenza di Florens: che è la canonizzazione solenne dell’idea stessa di «one company town». Il progetto di Florens su Firenze è il presente di una città che vive di un’unica fonte di reddito: il suo passato glorioso con l’annessa rendita di turismo.
Io penso, al contrario, che gli Uffizi siano una macchina da cittadinanza, umanità, eguaglianza. E che la via predicata da Florens e dal sindaco non costruisca futuro, ma anzi degradi il presente e uccida definitivamente il passato: «Firenze è una città volgare – scriveva nel 1999 Antonio Tabucchi – per la pacchianeria di una bellezza resa venale». Ed è per questo che ho declinato gli inviti a partecipare a singoli convegni, pur di qualità, contenuti nello scatolone di Florens: l’ho fatto perché – come dimostra la marea di retorica autocelebrativa – l’unico progetto di Florens è dire a Firenze che è la più bella del reame, condannandola a non cambiare.
Coerentemente, i posti d’onore del cast di Florens sono occupati da alcuni fra i più noti vampiri del patrimonio: quelli che da decenni hanno costruito la propria fortuna personale sullo sciacallaggio del passato. Sarebbe come invitare Berlusconi e D’Alema a parlare di rinnovamento della politica italiana.
I due ‘eventi’ di quest’anno, poi, rappresentano esattamente ciò che non si dovrebbe fare.
Che senso ha spostare in Battistero tre opere che non c’entrano nulla con quel luogo, e che non dialogano con quel contesto monumentale? Che senso ha interpolare il celebre confronto vasariano tra Donatello e Brunelleschi con il crocifisso giovanile di Michelangelo? La storia dell’arte dovrebbe fare tutto il contrario: educare alla lettura dei contesti storici e figurativi, cucire i grandi nomi degli artisti superstar al tessuto che tendiamo a non vedere. Invece qua il marketing prevale sulla ricerca, l’emozione seriale sulla conoscenza individuale, la retorica sulla ragione, l’evento sul monumento.
Aggiungiamo l’aspetto confessionale. Non è una mostra, ma un’«ostensione» (in una chiesa, piccolo dettaglio, dove di solito si entra a pagamento!). Tre opere d’arte che appartengono al Fondo Edifici di Culto del Ministero dell’Interno (e cioè a tutti gli italiani, anche a quelli atei o musulmani) vengono riportate alla condizione di icone da venerare. E il titolo (Mysterium Crucis) è davvero originalissimo: a Trapani tre anni fa si chiamava così l’ostensione del crocifisso ‘di Michelangelo’ comprato da Bondi (ma temo che non ci sia traccia di autoironia).
Si è scritto che si tratterebbe di un ‘segno’ teologico e pastorale: da cattolico, mi aspetterei ben altri segni, dal mio vescovo. Se proprio vogliamo usare l’arte religiosa di seicento anni fa, portiamo Donatello alle Piagge, invece di baloccarci nel salotto buono di una città incapace di guardare oltre il diaframma delle mura.
E non dimentichiamo gli ulivi secolari che rievocano il Getsemani: degna evoluzione del prato di due anni fa. In Italia esiste un movimento contro lo spostamento di quei monumenti naturali: contro la falsificazione kitsch del paesaggio, ma anche per la resistenza legalitaria (guidata da Libera di don Ciotti) contro i furti di ulivi secolari controllati dalla malavita in Puglia. Lasciamo perdere la validità estetica e intellettuale di questa trovata: ma siamo proprio sicuri che sia educativo incoraggiare (seppur, ovviamente, attraverso ulivi perfettamente legali) un modo tanto consumistico e decontestualizzante di guardare al paesaggio? E vi immaginate una cosa del genere a Barcellona, o a Parigi? Non rischiamo piuttosto di avvicinarci (con tutto il rispetto) a Grassina, e alla sua rievocazione storica del Venerdì santo?
Non parliamo poi di Mimmo Paladino: centomila euro (di questi tempi!) spesi per una sorta di trasloco di marmi, con la brillantissima idea della croce in Santa Croce. Come si può pensare che un’opera calata dall’alto per qualche giorno, un’installazione che non ha nulla a che fare col vivo tessuto degli artisti attivi a Firenze possa ‘redimere’ la socialità malata di quel quartiere? Davvero qualcuno pensa che qualcosa cambierà? E cosa dire del consumismo che esibisce tonnellate di marmo, incurante delle polemiche sull’insostenibilità del crescente fabbisogno di quella pietra? O della coazione ad occuparsi sempre e solo delle quattro o cinque piazze consacrate dal turismo di massa? E sì che l’artista ha parlato proprio di arte e spazio pubblico in una delle ‘lectio’ (sì, nel programma si usa ‘lectio’ anche al plurale: il latino non è una macchina da soldi, dunque si può benissimo usarlo senza conoscerlo).
Se Florens vuole essere davvero utile a Firenze deve mettere in discussione il concetto di rendita, proporre modelli alternativi, defenestrare la nomenclatura del patrimonio, mettere le dita nelle piaghe, e i piedi nel piatto. Non produrre ‘eventi’, ma recuperare (materialmente e conoscitivamente) monumenti. Non distruggere contesti, ma ricrearli: per esempio dedicandosi a grandi complessi monumentali da ripopolare temporaneamente con le loro opere, facendo conoscere la complessità di un tessuto storico. Evadere dal ‘salotto’ del centro e invadere le periferie: vera frontiera del futuro.
Se si avrà il coraggio di voltare pagina, Florens potrebbe davvero servire. A cambiare Firenze.
Tomaso Montanari


Commenti

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *