Il Fatto quotidiano, Tomaso Montanari - Ha ragione Pier Luigi Panza quando stigmatizza la gragnuola di attribuzioni farlocche a Michelangelo, Raffaello, Caravaggio e Bernini piovuta sui quotidiani negli ultimi tre mesi. Ma cos’è e a cosa serve, l’attribuzione? La capacità di riconoscere gli autori delle opere d’arte non è una dote innata, una rabdomanzia, un fiuto. È invece il frutto di un lungo e faticoso esercizio, una tecnica che si impara e che si insegna, un metodo del quale si può dar conto razionalmente. Uno storico dell’arte attribuisce le opere proprio come un filologo stabilisce in quali rapporti stanno i manoscritti che studia, un archeologo ricostruisce una serie iconografica, uno storico valuta la credibilità delle fonti: cioè grazie alla conoscenza del linguaggio (quello figurativo) e dei singoli testi (le opere) che quotidianamente frequenta. La capacità di “riconoscere le maniere” è proporzionale alla quantità di ore di studio, al numero di opere esaminate nelle collezioni di tutto il mondo, alla mole di fotografie sedimentate nella memoria: e lo dimostrano i taccuini di viaggio, gli appunti e le fototeche di grandi conoscitori come Bernard Berenson, Roberto Longhi o Federico Zeri. Panza sostiene che non sia necessario saper fare le attribuzioni per essere uno storico dell’arte. E lo stato attuale della disciplina sembra dargli ragione, visto che la complessa tastiera dello storico dell’arte si è scissa e molti dei tasti ambiscono all’ autosufficienza: accanto ai conoscitori ci sono gli iconologi, i cercatori di carte d’archivio, gli storici della critica e molti altri ancora. Tuttavia, questa evoluzione (o involuzione) non cancella un dato incontrovertibile: chi non intende la lingua dell’arte, non è uno storico dell’arte. Se l’attribuzione non può e non deve diventare il fine ultimo della storia dell’arte (che avrebbe ancora tutto da fare anche quando ogni opera del passato fosse stata restituita al suo autore), essa deve essere fra gli strumenti essenziali dello storico dell’arte: così come la conoscenza della lingua lo è per lo storico della letteratura, o quella del latino per lo storico romano. PANZA suggerisce che le attribuzioni fragili siano quelle fatte solo sulla base dello stile e senza privilegiare i documenti o i dati tecnici. Io credo esattamente il contrario: i guai peggiori sorgono quando si imboccano scorciatoie’ improprie e pseudo-oggettive, e in realtà egualmente sottoposte all’interpretazione, e dunque all’errore. Il ‘Caravaggio’ lanciato dal Sole 24 Ore è stato attribuito in base alla lettura (sbagliata) di documenti d’archivio: se ne fosse valutato lo stile, si sarebbe subito capito che si trattava di un’opera dipinta decenni dopo la morte del Merisi. Il Michelangelo’ comprato da Bondi era avallato da tecnologi del legno e anatomopatologi: se ne fosse valutata la qualità, il sommo nome del Buonarroti sarebbe stato scartato all’istante. Morale: se si prova a piantare un chiodo con un cacciavite non solo non ci si riuscirà, ma si finirà col farsi male. E se si vuol scoprire l’autore di un’opera, la via maestra è quella di studiarne lo stile e la qualità. Naturalmente non si tratta di un esercizio facile: ma gli errori devono essere imputati a chi li fa, non all’attribuzione in sé. Sul domenicale del Sole, Sergio Luzzatto ha brillantemente recensito un libro di uno storico che demolisce il libro di un’altra storica, la quale aveva creduto di dimostrare che la Sindone nel Duecento sarebbe appartenuta ai Templari fondandosi su incredibili arbitri interpretativi e clamorosi errori di lettura delle fonti. Bisognerebbe forse concludere che la scienza storica è infondata, delegittimata, inutile? No di certo: una studiosa si è sbagliata, e un collega l’ha corretta, in un processo perfettamente fisiologico. CERTO, orientarsi in questo mondo è difficile e il compito dei giornalisti che si occupano di storia dell’arte sarebbe complicato anche se ci si liberasse dall’ossessione dello scoop, del nome colossale, della scoperta’ clamorosa. È necessario capire chi sono i veri esperti, guardarsi dagli innumerevoli cialtroni che frequentano questi temi, non prendere i titoli accademici come oro colato e valutare bene le implicazioni economiche di attribuzioni che smuovono milioni di euro nel mercato dell’arte: ma se ci si avvicinasse a tutto ciò con un decimo della documentazione, del senso critico e della curiosità che il giornalismo italico dedica alle esternazioni di Borghezio o al delitto di Avetrana, capire e trasmettere le appassionanti avventure dell’attribuzione non sarebbe certo impossibile. E probabilmente sarebbe anche più divertente