Milano. Per fortuna mi definiscono Isgrò: intervista al Maestro delle cancellature

Redazione EosArte · April 5, 2013

“Per fortuna adesso il pubblico si è rassegnato a definirmi Isgrò e io mi sono rassegnato a mia volta a questo ruolo”. Artista, scrittore e poeta, teorico della Poesia Visiva e creatore di un’arte da molti semplicisticamente definita “concettuale”, Emilio Isgrò (Barcellona Pozzo di Gotto, Messina, 1937) è uno degli artisti italiani contemporanei più noti e apprezzati. Il Maestro, conosciuto nel mondo dell’arte in modo particolare per le sue ironiche e polemiche cancellature di testi di stampa, ci accoglie con simpatia presso l’Archivio Emilio Isgrò, istituzione nata per tutelare la sua produzione e promuoverne la conoscenza. L’intervista tocca temi artistici e sociali, oltre che, naturalmente, soffermarsi su momenti importanti della carriera del Maestro, con uno sguardo verso le prossime iniziative che lo vedranno coinvolto. di Vittorio Schieroni

Vittorio Schieroni: Maestro Isgrò, una sua installazione storica, L’ora italiana, è in mostra alle Gallerie d’Italia di Piazza della Scala a Milano. Venti orologi non sincronizzati, accompagnati da una condizione variabile di luce e suono, per ricordare la Strage di Bologna. Secondo lei, l’arte è ancora capace di avere un ruolo di denuncia sociale, di rispecchiare i sentimenti, i bisogni, le paure della società? Emilio Isgrò: Secondo me sì, purché non ci si aspetti che le battaglie dell’arte, che sono di solito battaglie sottili, anche se spesso veicolate dall’ampia comunicazione mediatica, si concludano rapidamente, perché le battaglie dell’arte lavorano sui tempi lunghi, ma lavorano. È chiaro che parte della crisi che oggi stiamo attraversando deriva proprio dalla crisi dell’arte, che non sa più dove deve andare, non sa più qual è la sua funzione. E qual è la vera funzione dell’arte? Quella di rappresentare il mondo esattamente com’è. Io non credo che oggi l’arte abbia questa funzione: ha piuttosto la funzione di ornare il mondo, di abbellirlo. Anche con immagini orride, a volte, però non bisogna illudersi che le immagini da obitorio siano veramente tali, spesso sono delle immagini che derivano da quella nozione di anti-artisticità inaugurata nel Novecento e che continua ancora oggi. Qualche anno fa ho recensito, sempre per EosArte, un’importante sua personale alla Galleria Gruppo Credito Valtellinese di Milano. Ricordo che in quell’occasione disse una cosa che mi piacque molto: parlò di arte che deve dare speranza, o meglio che deve “fare da megafono alla speranza”, in tempi incerti come questi. Rispetto al 2009 la situazione non è migliorata, né a livello economico né sociale. Gli artisti dovrebbero procedere con maggior determinazione anche in questa direzione? Sì, credo che l’artista debba smettere rapidamente quell’abitudine alla formazione del consenso che gli è stata assegnata da una parte del mercato non sempre lungimirante. Un tempo l’arte era la regina di tutti i dissensi, era quella che portava i dubbi sulla realtà. Oggi l’arte viene chiamata a portare conferme, ma confermare il torbido che c’è in certe società - torbidi finanziari, economici, politici - significa esattamente impedire al mondo di evolversi in direzioni più accettabili.    In quella occasione furono esposte diverse opere per rappresentare i momenti più importati del suo percorso artistico. Qual è stato il processo che l’ha portata all’arte concettuale e alla Poesia Visiva? È stato un processo lungo, un processo che non si è per la verità ancora concluso. Io non so se la mia arte sia da ascrivere all’arte concettuale o alla Poesia Visiva. Ho fatto il poeta visivo agli inizi della mia carriera e poi sono stato io stesso ad allontanarmi da questa esperienza perché non mi andava più bene, avevo riscontrato dei limiti che intendevo superare. D’altra parte, i poeti visivi stessi stranamente mi consideravano artista concettuale, gli artisti concettuali mi consideravano un poeta visivo, quindi c’era un conflitto di attribuzione, che io stesso non potevo sedare. Per fortuna negli artisti alla fine prevale la personalità individuale, se si tratta di artisti di un qualche impegno verso se stessi, oltre che verso gli altri, quindi definirmi per me non è facile e la stessa critica ha trovato sempre difficoltà a definirmi. Per fortuna adesso il pubblico si è rassegnato a definirmi Isgrò e io mi sono rassegnato a mia volta a questo ruolo, che è un po’ faticoso a volte, perché sugli artisti non allineabili pesa sempre il rischio di un certo isolamento. Io questo rischio non lo corro più - l’ho corso da giovane - perché ora sono circondato da persone che vogliono dialogare con me, e questo è il risultato del mio lavoro. Sembra, in effetti, che esista una certa tendenza a definire, a classificare, forse per semplificare le cose. Questo succede anche da parte della critica. Dalla critica meno colta, meno sensibile. È una parte della critica che adora incasellare troppo gli artisti.    Artista, ma anche scrittore e poeta. Nelle sue opere immagine e parola si mescolano spesso in un unico linguaggio. Come nasce questa interazione tra due modalità espressive che generalmente trovano pochi punti di contatto? Direi che l’aspetto innovativo del mio lavoro è soprattutto questo. Io sono stato l’artista che nel 1965 ha ridefinito la poesia come “arte generale del segno” anziché della parola pura e semplice. Il che faceva saltare tutti i parametri. Io avevo cominciato come poeta verbale: la poesia visiva fu un tentativo di uscire dalla verbalità, non considerata comunque un linguaggio vincolante. È chiaro che poi attraverso la cancellatura ho fatto saltare i codici linguistici, perché posso cancellare sia le immagini sia le parole, non fa differenza. Il mio vero impegno è sulla comunicazione in generale, sia verbale sia visiva. Probabilmente il mio lavoro viene capito oggi più di ieri perché tocca un problema di tutti i giorni: la comunicazione. E, dirò di più, anche l’eccesso di comunicazione, che vanifica l’essenza della comunicazione. Io non voglio dei censori, non vado in questa direzione, la cancellatura è un modo di aprire le porte della comunicazione fingendo di chiuderle per dare più libertà. Cancellare è creare un’assenza, esorcizzare, ma è anche un po’ il suo contrario: attirare l’attenzione su qualcosa, evidenziare. Quante sfumature si nascondono dietro il suo atto di cancellare? Le stesse sfumature che si nascondono nell’atto di scrivere. È esattamente lo stesso. Se lei esamina il mio lavoro vede una quantità di soluzioni che io stesso non sospettavo potessero esistere. Con le cancellature si può fare tutto, così come per la pittura e la scrittura tradizionali. Libri di letteratura, enciclopedie, articoli di giornale, carte geografiche… con quale criterio sceglie i testi da cancellare e trasformare in opera d’arte? Per me sono la stessa cosa.    Quali sono le iniziative che la stanno interessando in questo periodo e quelle che la vedranno coinvolta nel prossimo futuro? Intanto, ho in preparazione per giugno una grande retrospettiva alla Galleria Nazionale d’Arte Moderna a Roma, e questo, lei capisce, è un impegno abbastanza esclusivo. Poi, continuo il mio lavoro di tutti i giorni, che è quello di fare opere, che non necessariamente metto in mostra, le tengo da parte per quando potranno servire. Vorrei concludere con una riflessione sulle più recenti tendenze dell’arte concettuale, a volte accusate di essere pure e semplici emulazioni della produzione dei grandi Maestri oppure di cadere nella provocazione o nell’incomunicabilità. C’è ancora spazio per un’arte che si possa definire “concettuale” o pensa che la sua spinta propulsiva si sia esaurita con gli artisti della precedente generazione? Io credo che l’arte abbia sempre una sua dimensione concettuale. Dire che Fontana o Rothko non sono degli artisti concettuali è assurdo. Oggi si è presentata con prepotenza sulla scena della storia l’arte intesa come concettuale commistione di più linguaggi: è la cosiddetta arte multimediale, ed è chiaro che per quest’arte c’è spazio. Non c’è spazio per le ripetizioni. Però, lei adesso sottolineava il fatto che gli artisti a volte ripetono troppo la lezione dei maestri, ma neppure questo è un male assoluto, perché la gente sente il bisogno di riguardare quei maestri che in un primo tempo non aveva capito e li rilegge: non tutto il male viene per nuocere. Certamente trovo la generazione dei giovani poco ambiziosa, e questo mi dispiace, nel senso che hanno sogni di successo immediato ma non hanno la voglia di quelle rinunce, di quei sacrifici di se stessi e della propria vita che hanno fatto grandi quelli della mia generazione. Noi miravamo non al successo ma - se mi permette la battuta - alla gloria, alla grandezza umana. Non tutti ci siamo riusciti, ma ci abbiamo provato. Oggi ho la sensazione che i giovani abbiano obiettivi troppo piccoli. Intervista realizzata a Milano presso l’Archivio Emilio Isgrò in data martedì 12 marzo 2013. Publicata su eosarte in Articoli il 18 marzo 2013  

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