Il Fatto Quotidiano, di Nicola Tranfaglia - I dati ufficiali che emergono dall’ultimo rapporto (denominato report Apef, del 23 settembre 2011) dell’Organizzazione Europea per la Cooperazione e lo Sviluppo (OCSE) che raggruppa 34 paesi e di cui fa parte l’Italia, sono particolarmente significativi su quello che qualcuno di recente ha definito, in parte a ragione, l’arretratezza culturale del nostro paese e, in importanti giornali europei e occidentali, definiscono più apertamente l’ignoranza di massa che domina il nostro paese. Nessuno ne ha riferito agli italiani con i mezzi dicomunicazione di massa Ma quei dati sono, come ogni anno, preziosi per comprendere anzitutto i danni che le politiche di governo (con una particolare accentuazione negli ultimi tre anni di dominio populistico) hanno provocato nella società italiana alle nuove generazioni. Il primo elemento importante che il rapporto sottolinea riguarda la connessione tra il titolo di studio di cui sono in possesso i lavoratori e il guadagno che sono in grado di ottenere. I lavoratori dell’area OCSE con un titolo di istruzione, affermano i ricercatori, guadagnano di più rispetto a quelli che non hanno completato un ciclo di istruzione. E se poi hanno anche un’esperienza lavorativa nel proprio curriculum, i datori di lavoro sono disposti a pagare di più. IN ITALIA, nota il rapporto, la media degli individui occupati con istruzione superiore è ancora bassa (79 per cento rispetto alla media). A questo primo elemento ne succede un altro di particolare importanza ed è il livello di spesa che ogni paese europeo dedica all’istruzione. L’analisi mette in luce che in Italia la percentuale del Pil destinata all’istruzione è ancora bassa e più bassa di quella che la media dei paesi dell’OCSE dedicano al settore. In particolare, dobbiamo precisare che l’Italia tra il 2002 e il 2008 (nella maggioranza di quegli anni ha governato Berlusconi) ha speso il 4,8 per cento del Pil per l’istruzione, in pratica l’1,3 di percentuale in meno rispetto al totale OCSE del 6,1 per cento, risultando perciò al ventinovesimo posto su 34 paesi. Un terzo dato preoccupante riguarda i diplomi di istruzione secondaria di cui sono forniti i giovani italiani. In Italia, infatti, circa il 70,3 per cento dei giovani tra i venticinque e i trentaquattro anni ottiene un rapporto di istruzione secondaria superiore, ma la percentuale è di gran lunga inferiore alla media OCSE che è dell’81,5 per cento per la stessa fascia di età, collocandosi al ventinovesimo posto in Europa, nella stessa posizione già indicata per le dimensioni della spesa nazionale. Un quarto elemento da sottolineare riguarda gli stipendi degli insegnanti italiani (sforniti peraltro di una scuola di abilitazione professionale che i governi di centrosinistra avevano tentato a loro modo, pur con molte difficoltà, di costruire) che nel primo decennio del Ventunesimo secolo sono diminuiti rispetto agli stipendi degli insegnanti nei paesi dell’OCSE che registrano un aumento in media del 7 per cento in termini reali e non monetari. GLI INSEGNANTI italiani - è un dato oggettivo - guadagnano meno di altri professionisti con lo stesso grado di istruzione e raggiungono il livello più alto della loro fascia retributiva solo dopo 35 annidi servizio mentre in media, nei paesi dell’OCSE, raggiungono il livello più alto della loro fascia retributiva dopo ventiquattro anni di servizio. Si tratta, a mio avviso, di una differenza di non scarso rilievo nella vita professionale degli insegnanti. L’ultimo elemento, a cui accenno soltanto, riguarda i meccanismi di valutazione interna della scuola: qui l’arretratezza è maggiore (e ha di sicuro ragioni storiche) ma le classi dirigenti dell’ultimo decennio non hanno fatto le scelte decisive per superare il grande gap che si era creato rispetto agli altri paesi occidentali. Se, dai dati ufficiali dell’OCSE che hanno una oggettività che nessuno finora ha messo in dubbio, passiamo ai risultati dei rapporti e delle ricerche nazionali, il panorama purtroppo peggiora. E noto che la mancata soluzione dei conflitti d’interesse (a cominciare da quello del capo del governo in carica) e la forza crescente dell’analfabetismo di ritorno hanno determinato una impressionante egemonia dei telegiornali in gran parte dominati dal governo (5 su 6, se si vuol essere aderenti alla realtà della politica italiana) che comunica le novità a poco meno dell’ottanta per cento degli italiani mentre poco più del venti per cento dei nostri connazionali si informa attraverso i quotidiani che, a loro volta, sono in maggioranza vicini alla linea espressa dal governo nazionale. C’è da chiedersi, a questo punto, se ancora esista in Italia il quarto potere, aspetto fondamentale di ogni moderna democrazia