Per Giovanni Agosti, docente di storia dell’arte e curatore della mostra sul pittore veneto che si aprirà il 26 settembre al Louvre, la storia dell’arte ha una funzione etica e civile. Lo spiegherà al prossimo Festival della Mente di Sarzana Da l’ Unita’ del 23.08.2008, Stefano Miliani
Gli archi e le colonne anticheggianti che nel Mantegna si fanno memoria e solida architettura, i corpi e i volti che si fanno sculture di carne e pietra, le colline scame in cui Cristo prega hanno in quei dipinti una scabrosità, un fondo di solitudine da rendere spesso l’artista rinascimentale assai adatto a sublimare tormenti e passioni della nostra epoca. Di questo potranno trovare conferma (o smentita) coloro che dal 26 settembre al 5 gennaio vedranno al Louvre la mostra sul pittore nato nel 1436 all’Isola di Cartura, nel Veneto, e morto nel 1506 a Mantova. L’hanno curata Dominique Thiébaut, conservatore del dipartimento pittura del museo parigino specializzata nei rapporti tra pittura francese e italiana nel ‘400, e Giovanni Agosti: 47 anni, docente di storia d’afte moderna all’università statale di Milano, formatosi tra l’altro sulla raccolta grafica degli Uffizi, profondo conoscitore dei disegni del Rinascimento, tre anni fa pubblicò un’originale e letterariamente curiosa monografia sul pittore veneto edita da Feltrinelli. Agosti, tra i più preparati e indipendenti storici dell’arte italiani, alla disciplina e all’insegnamento assegna un ruolo etico, civile, ben al di là dello status accademico. Per questo, come leggerete più avanti, soffre e si arrabbia per il baratro di ignoranza a cui si affaccia dalla sua cattedra. Per lui il sapere è strumento innanzi tutto di libertà, di libero pensiero, e di ciò parlerà al Festival della mente di Sarzana, sabato 30 agosto alle 14.45 nella Fortezza Firmafede. Agosti, ha chiamato l’incontro di Sarzana «La storia dell’arte libera la testa» In che modo e perché la libera la mente? « E una frase di Fassbinder: ci sono film, non tutti, che liberano la testa. Altrettanto si può dire della storia dell’arte. Ce n’è una che la ottunde e una che libera: è quella che ti costringe a pensare, non ti rende passivo, non ti fa subire le mode. Con “liberare” intendo quello che Fassbinder intendeva con il suo cinema: poter fare sia un film come Querelle sia uno come Berliner Alexanderplatz».Dunque film liberi dalle convenzioni. Concepiti anche come affreschi di un’epoca. E visto che usiamo il termine affresco: che mostra vedrà Parigi? «Vedrà una mostra monografica di quasi 200 opere che cerca di raccontare in ordine cronologico la vicenda artistica e umana dell’artista. Si inizia evocando gli anni 50 del ‘400 a Padova, una situazione collettiva maturata attorno a Donatello, poi si avvicina al protagonista. Accanto ai suoi dipinti e lavori grafici esponiamo opere dei personaggi con cui entrò in contatto, laddove ci sia una vera esigenza per capirlo meglio: non vogliamo presenze casuali o decorative. Avremo ad esempio diversi dipinti del cognato Giovanni Bellini, un rapporto fondamentale nella formazione dei due artisti, coetanei. Avremo il ritratto di Isabella d’Este di Leonardo perché il suo arrivo a Mantova significa molto per Mantegna, che lì lavorava per la corte. Proponiamo infine molte opere del Correggio: l’allievo che più lo tradì, ma lo capì più di ogni altro perché in quel tradimento c’era un seme di amore e comprensione vero. Il Correggio sapeva che di fronte a un mondo che cambiava poteva trasmettere l’esperienza artistica del maestro solo cambiando il significato». Quali prestiti avete ottenuto? Avete chiesto il «Cristo Morto»? Due anni fa la Pinacoteca di Brera prima rifiutò e poi fu costretta a concederlo a una mostra curata da Sgarbi a Mantova. «No, nessuno di noi ha nemmeno pensato di chiedere il Cristo morto. Abbiamo il San Sebastiano da Vienna, l’Orazione nell’orto da Londra, i Trionfi di Cesare dalla collezione reale di Hampton Court, la Sacra famiglia da Dresda, dipinti da Copenaghen e dal Getty…» Sta diffondendosi, tra i musei, la tendenza ad «affittare» opere. L’ha fatto di recente il museo Picasso per una rassegna nel Golfo Persico… «Lo trovo tremendo: il prestito a pagamento permetterà solo a musei e a strutture ricche di allestire mostre, mentre penalizzerà istituti di alto livello scientifico ma con scarso sostegno economico. E andrà a finire che vorranno solo gli stessi autori. Tipo Caravaggio». Il braccio italiano della International Council of Museums, l’Icom, tempo fa ha denunciato che le troppe mostre danneggiano i musei e i loro visitatori. «Sì, è vero. Penso facciano eccezione mostre dall’impianto scientifico meditato nel tempo come lo è questa sul Mantegna: il Louvre ci pensa dai primi anni’90. Peraltro una rassegna di questo genere si inserisce nel solco dell’ex direttore del museo parigino, Laclotte, amante dell’Italia, e del quale Dominique Thiébaut è stata allieva. Credo sia importante aggiungere che vi collaborano più generazioni di storici dell’arte, anche miei allievi». Così dicendo tira in ballo un’altra questione mica da poco: come va oggi la trasmissione dei sapere? «E un problema fondamentale: come trasmettere valori e saperi, come mantenere i principi di rigore con cui siamo cresciuti nella realtà dell’università a punti? Come coinvolgere gli studenti? Penso responsabilizzando le persone. Nel nostro piccolo a questa rassegna hanno collaborato, come lavoro anche formativo, nostri allievi o ex allievi dai 20 ai 40 anni. Invece, nell’arte, esiste una vera industria in cui i laureati sfomano, sottopagati, schede su schede per mostre in giro per tutta Italia». Un docente può fare qualcosa, no? Cosa? «Anche se non so come farlo capire ai politici, penso a una storia dell’arte legata alla storia e alla geografia, dando spazio alle nozioni vere, non al nozionismo, ai nomi, alle date. L’affinamento dell’occhio critico è indispensabile e progressivo, ma può avvenire solo sapendo dove sono Urbino e Ferrara. Se uno studente universitario non lo sa, o non sa che gli Este erano a Ferrara e i Montefeltro a Urbino, è difficile costruire davvero». Se lo dice allora ha incontrato studenti chenon lo sapevano… «Mi succede quotidianamente agli esami. Chiedo dov’è Urbino e spesso non mi rispondono. Chiedo quante sono le guerre mondiali e spesso non ottengo risposta. Anzi, ricevo proteste perché sono domande fuori dal programma d’esame. Eppure insegno storia moderna in una università. Davanti a centinaia di studenti , ma pur sempre un’università». È un tracollo? «C’è un tracollo del sapere storico e geografico terribile. Urbino è una mia domanda classica, ma gli studenti non se la passano neppure tra loro. Si è chiuso un ciclo storico. Non c’è più memoria condivisa. In mezzo però ci sono gli studenti bravi. E poi abbiamo a lezione un 10% di anziani, persone che lavorando tutta la vita non hanno potuto studiare storia dell’arte. Dobbiamo registrare una mutazione antropologica degli studenti della disciplina: un tempo erano pochi perché costava, ora abbiamo corsi di laurea di massa ma la selezione sociale è e sarà pesantissima: tanti non avranno sbocchi. E poi, se non sai dov’è Urbino, non entri nemmeno in un’agenzia di viaggi».