Ma dove sono tutti questi privati pronti a salvare i piccoli tesori?

 Corriere della Sera – La lettura 13/5/2012, Nicola Spinosa –
«C’è un patrimonio diffuso che ha bisogno di tutele».
Nicola Spinosa è soprintendente del Polo napoletano
Nicola Spinosa è nato a Napoli nel 1943. Si laurea presso la Facoltà di Lettere e Filosofia dell’università di Napoli. Attualmente è Soprintendente per il Polo museale napoletano e docente di Museologia e storia del collezionismo presso il corso di Conservazione dei beni culturali dell’Istituto universitario Suor Orsola Benincasa di Napoli. Ha tra l’altro curato le mostre «Caravaggio: l’ultimo tempo 1606 – 1610» (2004) e «Tiziano e il ritratto di corte da Raffaello ai Carracci», (2006) entrambe allestite al Museo di Capodimonte di Napoli
A fronte della grave crisi finanziaria, che sta avendo ripercussioni negative anche sullo stato del nostro patrimonio artistico e culturale, proporreste di salvaguardare i veri o presunti «capolavori», lasciando che, in attesa di tempi migliori, le opere «minori» siano destinate alla probabile distruzione o alla sicura dispersione?
In poche parole, concentrereste le sempre più scarse risorse finanziarie disponibili solo su interventi a tutela delle opere dei «grandi maestri» – Masaccio e Botticelli, Leonardo e Michelangelo, Raffaello e Tiziano, Caravaggio e Bernini – e lascereste in sostanziale abbandono, con altri esempi di pittori o scultori meno noti, perché poco pubblicizzati, i tanti pur splendidi manufatti di orafi e argentieri, bronzisti e ceramisti, marmisti e tessitori, che sono parte consistente di un patrimonio straordinario e inscindibile, sia per la comprensione degli stessi «capolavori», sia per evitare la definitiva perdita della nostra già labile «memoria storica» e di una identità civile e culturale sempre più obsoleta o confusa? Insomma, per fare qualche esempio, accettereste che a Bergamo o Milano, per salvare una pala di Lorenzo Lotto o un affresco del Luini, vadano distrutti, per incuria e abbandono, preziosi stalli e intarsi lignei quattro o cinquecenteschi; che a Venezia, per restaurare un dipinto di Tiziano o di Tiepolo, possano scomparire antichi paramenti musivi e marmi policromi; o che a Napoli, per «salvare», come è pur giusto che sia, una tela di Caravaggio o di Luca Giordano, si lascino andare in frantumi pavimenti maiolicati di età aragonese o barocca e raffinati stucchi rocailles?
Sembra, invece, che da qualche parte la proposta di suddividere il nostro patrimonio artistico, per quanto assolutamente unitario e inscindibile, tra opere di prima e seconda o terza «fascia», finalizzata alla sua almeno parziale salvaguardia e giustificata dalle aggravate carenze finanziarie, sia diventato un esercizio sempre più diffuso, ora basato anche su presunto rigore analitico e solide motivazioni estetiche. Ma, quale potrebbe essere l’alternativa a queste allucinate proposte di sostanziale applicazione delle «leggi razziali» anche al nostro patrimonio di storia e d’arte? Un più consistente e pianificato intervento dello Stato e delle altre strutture di governo regionale e locale, a fronte delle sempre più urgenti necessità di un patrimonio pur vastissimo e diffuso e delle sempre più irrisorie carenze finanziarie disponibili? Ma no! Qui ci vuole il «privato», il più volte e da più parti richiesto e acclamato intervento del «privato», panacea delle tante carenze e inefficienze anche in campo culturale!
Come se il «privato», per quanto benemerito, senza indicazioni mirate e puntuali, senza alcuna compensazione sul piano fiscale, come in altri Paesi occidentali, sia in grado o scelga da solo d’intervenire a salvaguardia di un patrimonio considerato «minore», piuttosto che celebri «capolavori» capaci di assicurare almeno maggiore visibilità ed esteso prestigio. Insomma, fatta pure qualche eccezione, quale «privato» preferirebbe oggi, per di più in una situazione che lo vede in gravi difficoltà, intervenire sugli affreschi o sulle pietre scolpite di un’antica chiesa rupestre o su un «retablo» quattrocentesco di un ignoto o ignorato pittore meridionale? E chi poi dovrebbe affiancarlo, guidarlo e controllarlo nelle sue scelte? Un personale di tecnici certo qualificato e di sicura esperienza, ma oggi sempre più demotivato, depresso e, purtroppo, anche in gran parte in età avanzata, per il quale, oltretutto, non si prospetta neppure un inizio del pur necessario e ormai indispensabile ricambio generazionale? E allora che si fa? Salviamo i «capolavori» con l’intervento privato e lasciamo andare tutto il resto? Certo non c’è proprio di che stare allegri!


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